top of page

Il suo lavoro

Riproponiamo attraverso questo sito i testi che Angela Pascucci scriveva per il manifesto, perché riteniamo che abbiano una diversa longevità rispetto ai classici articoli di giornale; tutti i pezzi che selezioneremo hanno un valore storico e documentaristico, e alcuni sono ad oggi perfettamente attuali, nonostante gli anni trascorsi dalla loro stesura.

Come una delle tante megalopoli cinesi, anche questo sito è un cantiere, un work in progress, sempre in fieri. Un piccolo cantiere di storia contemporanea. Vi pubblicheremo a cadenza quindicinale due o tre interventi di Angela, scelti in base al tema o al periodo in cui furono composti.

Chi è interessato a questo progetto, può iscriversi alla nostra newsletter e riceverà automaticamente gli aggiornamenti.

Inoltre, tradurremo in inglese i testi che ci paiono più interessanti dal punto di vista storico, giornalistico e sinologico, in modo da renderli accessibili anche ai lettori non italiani.

Negli ultimi anni della sua vita Angela si era attivata per realizzare un blog, o un sito, che archiviasse tutto il suo lavoro, passato e futuro. La malattia non le ha permesso di andare oltre le prime fasi preliminari; ci proviamo noi, ora, convinti dell’assoluto valore della sua visione.

Il team che lavorerà a questo blog è composto da: Gaia Perini (Coordinatore), Federico Picerni (Ricercatore), Vincenzo Naso (Consulente), Giulia Dakli (web manager).

I “nuovi operai” alzano la testa


Operai Honda

[di Angela Pascucci, 2011] Nel 2010, quando i lavoratori della Honda di Foshan, nel Guangdong, innescarono la più grande ondata di scioperi dell’ultimo decennio in Cina, ottenendo forti aumenti salariali, le prime pagine e le copertine dei media occidentali li osannarono. Una copertina del settimanale britannico “The Economist” inneggiò al “potere crescente” degli operai cinesi, intendendo con ciò un’accresciuta capacità di consumo che avrebbe migliorato le loro condizioni di vita e salvato l’economia mondiale. Visione immaginifica ma angusta di un gruppo sociale che, costituito in gran parte da giovani contadini migranti, i nongmingong, ancora non è classe ma, costretto più di ogni altro a cambiare pelle nel crogiolo cinese, comincia a sviluppare una nuova consapevolezza di sé accompagnata da aspettative crescenti. Tanto che cominciano a essere definiti come “i nuovi operai”. La crisi che colpisce anche la seconda economia mondiale ha mutato lo scenario del 2010 ma non la determinazione di chi ancora oggi sciopera e protesta per non essere ricacciato indietro. In questo percorso ancora interrotto da frane e tutto in salita, qual è la condizione degli operai cinesi?

Il professor Chang Kai, che insegna alla Scuola del lavoro e delle risorse umane dell’università Renmin di Pechino, dove dirige l’Istituto per i rapporti di lavoro, è uno che respira la questione tutti i giorni e a domanda risponde che il processo per condurre la classe operaia cinese fuori dall’inferno sarà lento e graduale, soggetto a fluttuazioni e arretramenti.

Consulente del governo per l’elaborazione delle leggi sul lavoro, nel giugno del 2010 fu lui che gli operai della Honda di Foshan chiamarono al tavolo delle trattative, giunte a una drammatica impasse. I lavoratori chiedevano un aumento di 800 yuan al mese, quasi un raddoppio del salario, e non demordevano dallo sciopero che, ormai in corso da due settimane, aveva bloccato la produzione in tutti gli impianti Honda del paese, impossibilitati a lavorare senza le componenti prodotte a Foshan. Davanti alla loro pervicacia, l’azienda dichiarava illegittima l’azione operaia.

I sindacati ufficiali, dopo aver aggredito, anche fisicamente, l’azione di protesta, non intervenivano. Gli scioperanti erano soli.

È a questo punto che Xiao Li, l’operaia ventenne che guidava il comitato eletto dai lavoratori per sostenere le trattative, ha l’idea di ricorrere a un consulente esterno, dotato di autorevolezza e legittimità ai sensi della legge. Chang Kai accoglie la richiesta e il 4 giugno vola alla Honda. Ha le carte in regola per sostituire il sindacato nelle trattative. È un consulente del governo e i dirigenti della casa giapponese non possono rifiutarlo.

Oltretutto Chang insegna anche all’Università di Tokyo e per le gerarchie giapponesi è un alto funzionario cui si deve rispetto.

In sei ore la contrattazione si chiude, anche perché il professore convince gli operai a scendere a compromessi, abbassando a 500 yuan la richiesta di aumento, a mezza strada tra l’offerta dell’azienda e le richieste operaie. Al contempo ottiene che il gruppo dirigente sino-giapponese riconosca la delegazione operaia (al di fuori del sindacato ufficiale) come controparte avente pieni

diritti. Un fatto senza precedenti.

Quando oltre un anno dopo queste vicende lo incontriamo a Pechino, al terzo piano dell’Istituto del lavoro e delle risorse umane della Renmin, la cosa che più tiene a far sapere è che Xiao Li, la giovane operaia che lo ha chiamato alla Honda, è stata ammessa all’università e affinerà lì le sue armi di leader sindacale. Viene da pensare che forse in questo momento la sua determinazione sarebbe più utile sul campo ma il professore guarda lontano. Non è infrequente, spiega, che gli operai lo chiamino perché nell’ambiente è noto per gli articoli che scrive ma anche per la sua intensa attività di giuslavorista.

Ha già partecipato a contrattazioni collettive come consulente ma alla Honda è stata la prima volta che è intervenuto direttamente in una trattativa come rappresentante sindacale. Il sindacato ufficiale non glielo ha potuto impedire perché aveva le carte in regola e in ogni caso in quel momento sarebbe stato controproducente farlo.

Insiste sull’eccezionalità del caso Honda, dovuta secondo lui al convergere di spontaneità operaia, coesione nell’azione di sciopero e determinazione dei lavoratori di rispettare il quadro legale esistente, sfociata alla fine nella decisione di chiamarlo come loro rappresentante. Un concorso di circostanze che non avviene di frequente. In ogni caso ciò che li ha portati alla vittoria non è stata la sua presenza, ma il fatto che tutti i 1800 operai della fabbrica hanno interrotto il lavoro e mostrato una forte volontà di portare la lotta fino in fondo. Come del resto è avvenuto durante quella straordinaria primavera del 2010 in molte altre fabbriche del paese, dove i lavoratori hanno portato a casa forti aumenti salariali. Anche perché la propensione del momento era favorevole: in quel momento il governo aveva interesse a un aumento delle retribuzioni, necessario ad accrescere i consumi interni e a decomprimere le pressioni sociali Con quegli scioperi, secondo il professore, è arrivata al suo acme una più forte coscienza collettiva dei propri diritti da parte degli operai. Va spiegato che lanciare e partecipare a uno sciopero oggi in Cina è azione rischiosa, per la mancanza di un quadro legale chiaro. Dal 1982 il diritto di sciopero è stato eliminato dalla costituzione, senza tuttavia essere esplicitamente vietato.

Ciò ha creato un vuoto legislativo pericoloso per gli scioperanti, che affrontano rischi economici, politici e penali gravi. Ma se si arriva a correre una simile alea è perché per gli operai non vi sono altri modi per fare ascoltare le proprie richieste legittime.

Nelle diverse leggi sul lavoro sono stati espressi principi di regolamentazione che danno voce ai lavoratori. E tuttavia, mancando di meccanismi, istituzioni e linee guida che regolino le trattative e le azioni di lotta, in particolare lo sciopero, le norme restano carta che vola al vento dei rapporti di forza. Secondo il professore, costruire questo quadro è il compito più urgente in questo momento in Cina, per evitare che la protesta si politicizzi ed esca dalla disputa lavorativa per attaccare il governo. Un risvolto che chiaramente non è nelle sue corde. Nella variegata sinistra cinese, infatti, il dibattito sull’argomento è aperto e assai acceso. Vi sono intellettuali e attivisti secondo i quali ogni regolamentazione del diritto di sciopero in questo momento potrebbe legare le mani agli operai, oggi ancora troppo deboli e disinformati, limitandone l’azione.

Infatti, tutte le rivendicazioni esplose in quella primavera che andavano oltre gli aumenti salariali sono state di fatto accantonate.

Alla Honda chiedevano una modifica della struttura delle retribuzioni e degli scatti di anzianità, la fine dell’abissale differenza di trattamento tra i dipendenti cinesi e quelli giapponesi, un miglioramento delle condizioni di lavoro, una rappresentanza sindacale più rappresentativa, e dunque eletta democraticamente.

Elementi che avrebbero davvero segnato una svolta profonda nella attuale condizione operaia[1]. Chang Kai ammette che dopo la vittoria si è assistito a un ripiegamento. Un “ritorno all’ordine”, lo definisce. D’altra parte, afferma, “la coscienza operaia non corre su una linea progressiva, ma è piuttosto fluttuante”. Quanto allo spinoso rapporto col sindacato ufficiale, quest’ultimo alla Honda si è mostrato in seguito più ragionevole e ha accettato un cambiamento delle rappresentanze interne, ma per lui è evidente che la cornice entro cui si muovono i conflitti dentro la fabbrica resta attualmente intoccabile. Scardinarla sarebbe contrario alla legge, e questo il professore oggi non lo

auspica, però spera che un giorno gli operai possano fondare una propria rappresentanza sindacale dal basso.

Anche se è un non detto, è palese che ciò dovrà inevitabilmente accompagnarsi a una profonda trasformazione del sistema anche politico, e chissà quanto tempo ci vorrà. Secondo Chang Kai alla Honda è comunque emersa una élite operaia consapevole dei propri diritti, informata delle leggi, che chiede di essere riconosciuta ed esige una sostanziale eguaglianza sociale. Ma quanto è diffusa questa consapevolezza in Cina? Secondo il giuslavorista è una tendenza possibile che ha bisogno di precise condizioni per estendersi. La coscienza operaia, afferma, non emerge dal nulla. Alla Honda vi è stato un convergere di condizioni e, fra tutte, determinante è stata la voglia di combattere insieme e di arrivare fino in fondo. Questa coscienza non è ancora diffusa e tuttavia, ammette, il rapporto capitale-lavoro in Cina è oggi molto teso, le contraddizioni all’interno delle fabbriche sono fortissime, anche se gli scontri resteranno confinati nel chiuso degli impianti, espressi da una microconflittualità diffusa che già deflagra e si intensificherà.

Prevede dunque un inasprimento dei conflitti ma, afferma, è molto difficile che avvengano scioperi su grande scala nazionale come nel 2010. Stavolta il governo, quello centrale ma soprattutto quelli locali, non permetteranno che si verifichi una nuova escalation.


Pechino, novembre 2011


Questo articolo è tratto dal libro di Angela Pascucci Potere e società in Cina. Storie di resistenza nella grande trasformazione, Edizioni Dell'Asino, 2013



[1] Per un aggiornamento sull’evoluzione della questione operaia in Cina dopo la primavera del 2010 si possono leggere due pubblicazioni che analizza no il tema in maniera approfondita: Labour in China: A New Politics of Struggle, in “The South Atlantic Quarterly”, inverno 2013, Duke University Press (http://saq.dukejournals.org) e Industrial Democracy in China, di Rudolf Traub Merz e Kinglun Ngok, Friedrich Ebert Stiftung 2012 (http://library.fes.de/pdf-files/china/09128/index.html).

bottom of page