[di Gaia Perini, 2019] Ormai un secolo fa, nel 1923, Lu Xun in un suo noto saggio riprendeva il finale di “Casa di Bambola” di Ibsen, chiedendosi cosa successe a Nora dopo la fuga dal marito e dalla famiglia tradizionale. “Casa di Bambola” si chiude difatti con Nora che coraggiosamente decide di scappare dalla gabbia dorata ove era vissuta sino a quel momento, ma non ci dice che cosa le accade dopo: da qui invece prende le mosse la riflessione di Lu Xun, che ipotizzava, amaramente, una brutta fine per la donna, od in alternativa il mesto ritorno di questa entro le mura domestiche. In perfetta, strabiliante sintonia con quanto scriverà Virginia Woolf pochi anni dopo (1928), Lu Xun arrivava a sostenere che senza una “stanza tutta per sé”, senza una rendita, un’indipendenza economica posta a premessa dell’autonomia di pensiero, Nora non avrebbe potuto fare altro che soccombere. Perire o ritornare all’ordine dato, al “così è e sempre sarà”.
Il patriarcato proseguirebbe dunque anche al di fuori della “casa di bambola”, intrecciandosi con le altre strutture dell’oppressione sociale: e questo è quanto, dopo Lu Xun, ripeté ad Angela Pascucci l’intellettuale femminista e marxista Dai Jinhua, nel corso di un’intervista rilasciata nel 2011. La riprendiamo qui, come fu trascritta da Angela in poche, serratissime pagine, riassumendo un ragionamento che in realtà occupò circa tre ore di una limpida mattinata trascorsa nel campus di Beida, l’Università di Pechino, ove la professoressa Dai insegna teoria della letteratura, teoria del genere e cinema.
Angela così introduce il tema:
Dai Jinhua ha affermato che la differenziazione di classe e la ricostituzione di un ordine di genere sono stati la realtà più importante e crudele degli anni '90. Due aspetti intrecciati in modi così complessi e profondi che, scrive la studiosa, difficilmente possono essere separati l'uno dall'altro. Da questo intreccio inizia la nostra conversazione al tavolino di un bar-ristorante della Beida.
Il lettore vedrà come classe e genere nel discorso della intellettuale cinese agiscano in un regime di “parallelismo oppositivo”, in cui la prima s’innesta sul secondo, ma fra i due termini sussiste sempre e comunque una tensione. Non si fa cenno alla categoria dell’intersezionalità, che forse potrebbe rispondere ad alcune delle domande poste da questa fine teorica, la quale comunque riesce, partendo dalla questione femminile, a tracciare un quadro preciso, potente, visionario, dell’evoluzione cinese degli anni 2003-2011, con un piglio critico e una spregiudicatezza che oggi sono semplicemente impraticabili – si pensi alla recentissima e inquietante vicenda del professore di giurisprudenza di Qinghua, sospeso dal suo incarico per aver messo in discussione la liceità del mandato a vita per il Presidente Xi. Era davvero un’altra Cina, quella in cui Dai Jinhua ci dedicò tre ore del suo prezioso tempo.
Poi, a fare da cassa di risonanza alle analisi di Dai, a dare loro una cornice concreta, proponiamo qui altre due interviste: la prima fu condotta nel 2006, con le fondatrici dell’Associazione Donne Migranti, la quale prestava soccorso legale a decine di migliaia di donne che dalle campagne venivano a cercare lavoro in città. Precarie, assunte quasi sempre in nero, retribuite meno dei mariti a prescindere dal lavoro svolto, con un’identità sociale fluttuante e senza garanzie: “fantasmi servizievoli che nessuno vuole vedere” – così Angela giunse a definirle alla fine del suo articolo. Fantasmi non solo perché sono “la mano invisibile” del miracolo cinese, ma anche per via dell’altissimo tasso di suicidi, ovviamente legati alle loro condizioni di vita e non a qualche motivazione strettamente personale.
Infine, e per contrasto, se il resoconto delle volontarie del centro Donne Migranti ci restituisce tutta la lucida cupezza già espressa da Dai Jinhua, l’ultima intervista con cui chiudiamo questa newsletter, oltre ad essere un pezzo di maestria in cui è più che mai riconoscibile lo stile di scrittura (e di pensiero) di Angela, ridà leggerezza e speranza. Il ritratto della signora Wu, spacciatrice di ingressi illegali all’orto botanico di Wuhan, è il ritratto della resilienza. Resilienza, congiunta alla levità di farfalla con cui l’intervistata si librava sopra la vita e le sue disgrazie: l’ex marito violento, il figlio nullafacente, una storia di tumore e tutte le difficoltà a trovare lavoro, o ad inventarselo. La Wu – che ha un cognome omofono del carattere cinese “nulla” – la Signora Nulla potrebbe essere forse l’ultima reincarnazione di Nora. L’ex marito, da lei piantato, mentre noi stavamo conducendo l’intervista, urlava come un pazzo e forse era pure ubriaco; berciava sporgendosi dalla finestra di fronte a quella dell’appartamento di lei: la signora Wu non batteva ciglio – continuava a parlare, con voce pacata e imperterrita, incurante, direi, perché assolutamente certa di essersene andata.
di Gaia Perini
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