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Il suo lavoro

Riproponiamo attraverso questo sito i testi che Angela Pascucci scriveva per il manifesto, perché riteniamo che abbiano una diversa longevità rispetto ai classici articoli di giornale; tutti i pezzi che selezioneremo hanno un valore storico e documentaristico, e alcuni sono ad oggi perfettamente attuali, nonostante gli anni trascorsi dalla loro stesura.

Come una delle tante megalopoli cinesi, anche questo sito è un cantiere, un work in progress, sempre in fieri. Un piccolo cantiere di storia contemporanea. Vi pubblicheremo a cadenza quindicinale due o tre interventi di Angela, scelti in base al tema o al periodo in cui furono composti.

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Inoltre, tradurremo in inglese i testi che ci paiono più interessanti dal punto di vista storico, giornalistico e sinologico, in modo da renderli accessibili anche ai lettori non italiani.

Negli ultimi anni della sua vita Angela si era attivata per realizzare un blog, o un sito, che archiviasse tutto il suo lavoro, passato e futuro. La malattia non le ha permesso di andare oltre le prime fasi preliminari; ci proviamo noi, ora, convinti dell’assoluto valore della sua visione.

Il team che lavorerà a questo blog è composto da: Gaia Perini (Coordinatore), Federico Picerni (Ricercatore), Vincenzo Naso (Consulente), Giulia Dakli (web manager).

L’ora del diritto in nero


[di Angela Pascucci, 2008] Nel 2004, alla fine delle vacanze del Capodanno lunare, successe qualcosa di straordinario nel Guangdong: il 10% dei lavoratori non si ripresentò in fabbrica. Per le aziende fu uno shock. I cartelli di reclutamento cercavano di attirare operai con frasi come “salari pagati regolarmente”, che rivelavano il perché della diserzione.


Secondo le statistiche ufficiali in quell’anno i salari non pagati ai migranti arrivarono a cento miliardi di yuan (centoventi miliardi di euro). Questa sconcezza, insieme alle altre, ha alimentato la nascita di organizzazioni di consulenza legale di base, formate da altri operai. Li chiamano “avvocati neri” perché, dicono le autorità, disturbano il (non) funzionamento della legge e “danneggiano l’ambiente di investimento” (crimine imperdonabile da queste parti). La crescente popolarità ha messo sotto tiro questi consulenti legali “fai da te” che aiutano i lavoratori a difendersi dalle violenze aziendali. Nel 2006 con un raid le autorità ne chiusero dodici, ma le proteste furono tali che dovettero farle riaprire. Una vita agra.


Ne sa qualcosa Xiwang, “Speranza”, agenzia di consulenza legale creata da tre ex operai nel 2005. Hanno accettato subito di incontrarci perché vogliono raccontare la loro storia, che da qualche tempo ha avuto una svolta drammatica. L’appuntamento è in un piccolo e spoglio appartamento di una palazzina del caotico distretto di Baoan, quartiere di Shenzhen diviso tra fabbriche e case-dormitorio dove un’umanità sfinita riprende le forze nell’intervallo tra un turno di lavoro e l’altro.


Nella lista nera


I nostri cavalieri neri di Xiwang sono finiti nella tempesta poco più di un anno fa, dopo aver rilasciato un’intervista a una televisione italiana. La polizia è subito piombata loro addosso per chiedere conto di quel che avevano fatto, ma sono consapevoli che l’intervista è stata un pretesto per metterli a tacere. Hanno dovuto chiudere la sede e ancora oggi, ovunque cerchino di installarsi, arriva la polizia e li manda via. E non è neppure il peggio.


È in discussione una proposta di legge che consentirà ad associazioni come la loro di operare solo gratuitamente. Gli unici titolati a farsi pagare saranno gli avvocati. Per “Speranza” è la fine, ma anche per molti operai diventerà più difficile ricorrere alla legge.


Associazioni come questa, spiegano, si fanno pagare solo a causa vinta, diversamente dagli studi legali. Hanno già preparato una petizione per chiedere al governo di modificare la legge e mostrano un pacco di fogli corredato a mo’ di firma dalle loro impronte digitali. Ma i tempi delle petizioni sono lunghi e non è detto che la loro sia accolta. Hanno ancora fiducia, anche se le prospettive sono grame. Ormai anche la fabbrica è loro preclusa. “Siamo nella lista nera, nessuno vorrà assumerci”.


Seduti in circolo, raccontano. Se hanno deciso di aprire l’agenzia è anche perché ognuno aveva alle spalle un trascorso che l’ha spinto ad agire. Wu in fabbrica ha perso due dita della mano sinistra per una sega difettosa. L’azienda voleva risarcirlo con duemila yuan, cento euro a dito. In fabbrica un giorno si è impossessato del microfono centrale e ha fatto arrivare a tutti i reparti il suo urlo di schifo e disperazione. Alla fine, gli hanno dato l’equivalente di mille euro e lo hanno cacciato.


Ci sono una decina di associazioni come “Speranza” nel distretto di Baoan dove vivono cinque milioni di persone, per l’80% migranti. La nuova legge sul lavoro? Bisogna combattere duramente per portare nei luoghi di lavoro quello che è scritto sulla carta, dicono. La complicità tra governi locali e aziende è l’intreccio che soffoca i lavoratori. La corruzione costa, ma sempre meno che dare a un operaio quello che gli spetta. Per non parlare poi del lavoro minorile, degli operai chiusi a chiave. Come la giovane donna che, per essersi rivolta a “Speranza”, è stata sequestrata per due giorni nel dormitorio.


Ma i lavoratori cinesi cominciano a reagire. “Sono davvero coraggiosi. Bloccano il traffico, scioperano sempre più spesso, anche se rischiano molto”. A dirlo è Jenny Chan, poco più di trent’anni, sorridente coordinatrice capo di “Sacom” (Scholar and students against corporate misbehaviour), ong di Hong Kong. A spingerla sulla strada dell’attivismo sono stati i suoi professori dell’Università di Hong Kong. Un’estate, su loro suggerimento, è andata a lavorare in una fabbrica elettronica. Ricorda ancora lo shock dei dormitori, coi topi che correvano sui letti. Ma ricorda anche la vita, le speranze, le paure delle operaie con cui viveva.


I lavori ai monitor dei computer e alle lenti di ingrandimento per l’assemblaggio dei circuiti consumano la vista, ma un’operaia che avesse messo gli occhiali sarebbe stata subito licenziata, racconta, perché avrebbe rivelato un calo di efficienza. Le fabbriche, hi-tech e no, vogliono l’energia delle giovani donne. Le ragazze sono più docili, più veloci ed efficienti. Un’operaia comincia a sedici anni (limite minimo legale spesso infranto) e a ventiquattro è considerata già vecchia, consumata. Eppure, dice Jenny, i media sono pieni di dibattiti sulla responsabilità sociale delle corporation o sullo sviluppo sostenibile. Tra i discorsi e la realtà c’è un abisso. Invece è ai lavoratori che si dovrebbe dare voce, senza che rischino il licenziamento. Sacom, spiega, oltre a denunciare le violazioni delle corporation ha anche questo scopo: informare e formare i lavoratori affinché si possano difendere da soli. Professori, studenti, operai. Attivismo. Formazione di coscienza e consapevolezza. Sembra un ciclo storico che si ripete. Davvero difficile dire se avrà un futuro e che dinamiche innescherà un simile processo nella Cina del “socialismo con caratteristiche cinesi”.


Lu Jianhua e sua moglie Zhang, intanto, se la cavano da soli. Migranti, trentaquattro anni lei, trentotto lui, hanno lasciato il Sichuan quando avevano diciotto anni. Ogni tanto ci tornano, per andare a trovare i genitori e i due figli. Il secondo, un maschio di nove anni, gli è costato una multa di diecimila yuan (mille euro) per violazione della legge sul figlio unico. Oggi vivono a Baoan in una sorta di falansterio a sei piani. La loro casa è una stanza di cinque metri quadrati che contiene a malapena il letto, dove siamo seduti stretti tutti quanti mentre loro raccontano, e l’indispensabile per vivere. Cucina e bagno sono all’esterno, in comune con gli occupanti delle altre stanze allo stesso piano. Le pareti della camera sono tappezzate da coloratissimi dépliant pubblicitari che formano un patchwork un po’ surreale di offerte speciali delle merci più svariate. Lei dice di sentirsi già “vecchia e grassa”, ma è una forza della natura quando parla e ride.

La casa natale è stata lesionata dal violento terremoto che ha scosso in primavera il Sichuan, ma potranno rimetterla a posto.

Però quella scossa violenta che ha sterminato migliaia di persone li ha indotti a riflettere sulla propria vita: correre da un posto all’altro senza altro scopo che lavorare per vivere, e poi, all’improvviso, la morte.

In realtà, la loro vita una scossa l’ha già subita quando, nel 2006, Lu è stato vittima di un incidente mentre usciva dalla fabbrica di accessori per abbigliamento dove lavorava da sei anni, sopravvivendo a turni di lavoro arrivati anche a 24 ore consecutive.

Una moto l’ha investito, si è fratturato la caviglia e per due mesi è stato in malattia. Subito ha scoperto che l’azienda non pagava l’assicurazione, poi che per quei due mesi non gli avrebbero dato l’80% del salario, come stabilisce la legge. Quando ha rivendicato quel che gli spettava lo hanno licenziato. Ha deciso di fare causa, mettendo nel contenzioso anche gli straordinari mai pagati e ha chiesto un risarcimento di 40mila yuan (poco più di quattromila euro). Ma la sentenza tarda ad arrivare.

Questa causa è diventata la loro ragione di vita, il rovello che ha spezzato il cerchio della sottomissione. “Bisogna contare solo sulle proprie forze”, dicono, ma si sente che non vorrebbero essere così soli davanti a quella forza oscura che è l’apparato giudiziario. “Pensi di avere ragione, ti appelli alla legge, però non ce la fai”. Lu mostra un libretto del Ministero del lavoro: risposte alle domande più frequenti sulla legge del lavoro. Lì c’è scritto che lui ha ragione. Lo rigira, lo arrotola, come se volesse strizzare fuori la sentenza che aspetta e chiede: “Pensate che ce la faremo?”


Shenzhen, giugno 2008


Questo articolo è tratto dal libro di Angela Pascucci, Potere e società in Cina. Storie di resistenza nella grande trasformazione, Edizioni Dell'Asino, 2013.

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