[di Federico Picerni, 2018] È bastato un solo mandato di governo, rinnovato recentemente per il prossimo quinquennio, perché Xi Jinping imprimesse il suo indelebile marchio sulla Cina odierna. Addirittura, il suo nome è incastonato su quella che viene ufficialmente definita la “nuova era” del socialismo con caratteristiche cinesi, proclamata in pompa magna al XIX Congresso del PCC svoltosi nell’ottobre 2017 e persino suggellata nella Costituzione della Repubblica popolare. Nella medesima modifica costituzionale, approvata lo scorso marzo dalla seduta annuale dell’Assemblea nazionale del popolo, scompare anche il limite di due mandati per il presidente della Repubblica. Ciò lascia presagire che Xi resterà in sella ben oltre i canonici dieci anni, anche se non è chiaro fino a quando. Comunque il suddetto congresso prevede che entro il 2035 “la modernizzazione socialista” sarà completata “nelle sue linee fondamentali”, per arrivare poi all’ambizioso obiettivo di trasformare il Paese in una “potenza socialista moderna prospera, democratica, civile, armoniosa e meravigliosa” entro la metà del secolo [1]. Dulcis in fundo, l’aggiornamento dell’impianto ideologico del partito davanti ai nuovi compiti prefissati è stato definito “pensiero di Xi Jinping”.
Dunque, che Xi Jinping sia la figura centrale, e accentratrice, di tale processo, fra show televisivi sul suo pensiero e citazioni onnipresenti, è indubbio. Circolano tuttavia diverse interpretazioni che, nell’opinione di chi scrive, tendono a essere eccessivamente semplicistiche: se ci si limita a vederlo come il “neo-imperatore”, il “presidente di tutto” o il “presidente a vita” si rischia di non cogliere le contraddizioni e le circostanze che hanno portato fin qui. In una Cina, va sottolineato, reduce da una ormai impraticabile crescita del PIL a due cifre, seduta sul coperchio di una pentola ribollente di tensioni sociali e inserita in un contesto geopolitico al contempo promettente – per le sue ambizioni – e sempre più carico di ostilità.
Per risolvere l’interrogativo, o almeno provarci, ci pare quindi utile iniziare le pubblicazioni quindicinali del nostro piccolo cantiere di storia contemporanea proponendo tre articoli scritti da Angela Pascucci fra il 2011 e il 2013, nel pieno della transizione. Benché chiaramente non affrontino Xi nel periodo del suo massimo splendore, per così dire, a unirli c’è comunque il filo della sua ascesa: forniscono cioè la base per cogliere gli interessi economici, i cambiamenti strutturali e gli intrecci globali che sottendono il passaggio alla “nuova era”. Più che l’uomo ambizioso e forte, sintomo di un’involuzione autoritaria, Xi andrebbe insomma inteso come il significante di una vera e propria linea strategica di governo, tanto singolare e profondamente diversa dal periodo precedente quanto il personaggio che la incarna.
Cautamente, già nell’articolo “La Cina che verrà”, pubblicato l’8 novembre 2012 alla vigilia del XVIII Congresso del PCC che inaugurò il mandato di Xi, Angela non si dilungava in oracoli e profezie ma coglieva con una certa precisione che stavolta non si trattava di un semplice avvicendamento al vertice, che secondo una regola non scritta doveva mutare ogni dieci anni per non violare le dinamiche della leadership collettiva, ma di un cambio di marcia, e ne identificava le cause socio-economiche. In particolare, il rallentamento della crescita minacciava instabilità: nel precedente decennio le politiche “armoniose” di Hu Jintao e Wen Jiabao avevano portato a risultati significativi come la legge sui contratti del 2008 e quella sulla sicurezza sociale del 2011. A sostenere questa espansione del welfare per fare da tampone alla grave polarizzazione sociale c’era la crescita a due cifre: esauritasi quest’ultima, per Pechino si rendevano necessarie altre misure per tenere in piedi il proprio modello di sviluppo [2].
La riflessione si sviluppa con l’articolo del 15 novembre 2013 sugli “Scenari post per il Terzo Plenum”, dedicato alla III sessione plenaria del Comitato centrale del PCC [3], svoltasi proprio in quel mese, adottando la nuova linea dell’“approfondimento complessivo delle riforme”. In essa, parallela alla famosa campagna anticorruzione che ha mietuto vittime importanti anche fra gli anziani intoccabili del partito, Pascucci ravvisava una politica economica essenzialmente di destra in risposta alla crisi; politica da cui, scriveva, «emerge il disegno di un “mercato”, della forza lavoro, delle risorse, della terra, dei servizi, dei capitali, sempre più vasto e diversificato, e dall’efficienza spietata. Una “libertà” che imporrà costrizioni ad ampi strati della popolazione cinese. Se ne deduce che la presenza dello stato non sarà meno forte, piuttosto avrà geometria variabile, lasciando agire “gli spiriti animali” finché asseconderanno il disegno complessivo. In modo non dissimile dagli ultimi decenni ma con piani più ambiziosi, e rischiosi, perché la posta in gioco si è nel frattempo alzata».
Facendo un salto all’indietro, “Washington e Pechino, la coppia che non scoppia”, da il manifesto del 22 maggio 2011, precede di oltre un anno l’avvento vero e proprio di Xi, ma è altrettanto prezioso in quanto ne fotografa il retroterra. Certo, Angela non poteva prevedere il futuro, ma chi, come noi, ha il “senno del poi” dalla propria parte può ritrovare i fili che collegano i vari nodi. Allora ella riportava, condividendole, le parole di Ian Bremmer e Nouriel Roubini, esperti rispettivamente di relazioni internazionali e di economia, secondo cui il mondo retto dai vari G8, G7 e G20 stava lasciando il posto ad un mondo G-zero, caratterizzato da un vuoto di leadership, dove sono più plausibili «conflitti prolungati piuttosto che una nuova Bretton Woods». In questo quadro, che oggi appare quasi come un tetro presagio, tanto Xi quanto Trump, in quanto strong-men ed espressioni di involuzioni aggressivamente autoritarie, appaiono come due facce della stessa medaglia, prodotti di questo vuoto di leadership seguìto alla grande crisi del capitalismo del 2008 e al fallimento del disegno unipolare degli Usa, ma anche al già citato rallentamento della crescita cinese. Un vuoto che nessuna potenza può permettersi, sia essa in declino (gli Usa), in ascesa (la Cina, ma anche la Russia), o regionale (il caso turco è uno fra i tanti). E, a margine, riemerge una costante delle ricerche di Angela, ossia la competizione Usa-Cina, due Paesi ferocemente rivali ma intrecciati a maglie strette e per questo, nonostante la guerra doganale e le costanti tensioni militari, attualmente incapaci di arrivare ad una rottura che non sia rovinosa per entrambi.
Un elemento di originalità nell’analisi sta nell’avere colto la fondamentale discontinuità di Xi rispetto alle precedenti amministrazioni. Ci ha sorpreso ritrovare il filo del suo discorso in una ricca e fondamentale intervista al misterioso ma brillante Lao Xie (uno pseudonimo) da parte di Chuang, un collettivo di attivisti interessati a una lettura critica – e sociale – della contemporaneità cinese. In essa, dal significativo titolo “A State Adequate to the Task” [4], lo sconosciuto “attivista” (ri)propone la tesi per cui Xi (sempre tenuto conto che il suo nome non indica semplicemente l’uomo ma la strategia e il groviglio di interessi politici ed economici di cui è espressione) rappresenta un maxi progetto di stabilizzazione del capitalismo cinese dopo quarant’anni di governo provvisorio, dal momento che la politica di riforme inaugurata da Deng Xiaoping richiedeva un sistema capace di adattarsi tempestivamente ai cambiamenti imprevedibili e improvvisi che tale politica generava. Afferma Lao Xie: «Dal 1976 fino al 2012 si sarebbe potuto dire che il governo cinese fosse niente più che un governo provvisorio. Si trattava veramente di “attraversare il fiume tastando le pietre” [parole di Deng Xiaoping]. Non aveva alcuna strategia coerente a lungo termine. Ogni volta che la transizione al capitalismo generava dei problemi, i leader, in sostanza, se ne occupavano uno alla volta. Giunto al potere il presidente Xi, il suo governo ha finalmente messo gli interessi a lungo termine dell’accumulazione capitalista all’ordine del giorno. Come nel caso di Deng, è importante evitare di attribuire troppo peso all’operato del solo Xi. Questi non è caduto dal cielo, ma è semplicemente una manifestazione dei desideri profondi della borghesia cinese. Qui non stiamo parlando di un pugno di individui, ma di una cosa azionata dagli interessi comuni dell’intera classe dominante».
Secondo lui, la borghesia, pur essendosi già formata prima di Xi, «[n]on aveva ancora stabilito un insieme completo di regole e regolamenti per una pianificazione a lungo termine. Il presidente Xi sta finalmente cercando di costruire uno Stato a lungo termine. In questo senso, penso si possa dire che il presidente Xi sia un padre fondatore. Sta cercando di costruire qualcosa che possa durare cent’anni». Per mettere a punto questa strategia si tratta di imbrigliare una situazione difficilissima di incontro-scontro fra il capitale statale e il capitale privato, fra i grandi boiardi di Stato e chi trarrebbe profitto dalla spartizione privata delle grandi aziende nazionali. Il governo sta nel mezzo, con i ministri nel ruolo di meri «maggiordomi» dei grandi capitalisti di Stato, dove «i veri capi non si trovano nel Comitato centrale» (sempre parole di Lao Xie). C’è però un convitato di pietra: la lotta di classe, espressa nel moltiplicarsi dei cosiddetti “incidenti di massa” e nelle varie forme di protesta sociale che Angela Pascucci non ha mai smesso di interrogare e tenere in conto, come si vede negli articoli proposti.
Non ci dilunghiamo oltre, ma speriamo di avere offerto qualche spunto per meglio inquadrare questi tre articoli di Angela Pascucci e per stimolare il dibattito. D’altra parte, nell’era della globalizzazione neoliberista, parlare di Cina è parlare (anche) di noi.
NOTE
[1] Traduciamo dalla Mozione del XIX Congresso nazionale del Partito comunista cinese sul Rapporto del XVIII Comitato centrale (中国共产党第十九次全国代表大会关于十八届中央委员会报告的决议): «Il Congresso ritiene che il periodo dal XIX al XX Congresso [il quinquennio 2017-2022, NdT] sia una fase storica di convergenza degli obiettivi di lotta dei “due centenari”. Sarà nostro compito sia completare nel complesso la costruzione della società di media prosperità e realizzare così l’obiettivo di lotta per il primo centenario, sia cogliere l’opportunità per aprire la marcia verso la costruzione complessiva di uno Stato socialista moderno, avanzando verso l’obiettivo di lotta per il secondo centenario. Portando a sintesi l’analisi della situazione interna e internazionale e le condizioni dello sviluppo del nostro Paese, è possibile suddividere il periodo dal 2020 alla seconda metà del secolo in due fasi. Nella prima fase, dal 2020 al 2035, sulla base del completamento complessivo della società di media prosperità, si tratterà di impegnarsi duramente per altri quindici anni per realizzare la modernizzazione socialista nelle sue linee fondamentali. Nella seconda fase, dal 2035 alla metà del secolo, sulla base della realizzazione della modernizzazione socialista, si tratterà di impegnarsi duramente per altri quindici anni per fare della Cina una potenza socialista moderna prospera, democratica, civile, armoniosa e meravigliosa» (大会认为,从十九大到二十大,是“两个一百年”奋斗目标的历史交汇期。我们既要全面建成小康社会、实现第一个百年奋斗目标,又要乘势而上开启全面建设社会主义现代化国家新征程,向第二个百年奋斗目标进军。综合分析国际国内形势和我国发展条件,从二〇二〇年到本世纪中叶可以分两个阶段来安排。第一个阶段,从二〇二〇年到二〇三五年,在全面建成小康社会的基础上,再奋斗十五年,基本实现社会主义现代化。第二个阶段,从二〇三五年到本世纪中叶,在基本实现现代化的基础上,再奋斗十五年,把我国建成富强民主文明和谐美丽的社会主义现代化强国).
[2] Rimandiamo all’articolo di Chris King-Chi Chan, “Changes and Continuity: Four Decades of Industrial Relations in China”, pubblicato su Made in China, 2 (2018) e online (http://www.chinoiresie.info/changes-and-continuity-four-decades-of-industrial-relations-in-china/).
[3] In un Paese caratterizzato da un alto livello di ritualità come la Cina (eredità della sua tradizione confuciana, ma non solo), numeri e ricorrenze sono importanti. La III sessione plenaria dell’XI Comitato centrale, che si tenne nel dicembre 1978, ebbe come epicentro la chiusura dei conti con l’eredità del socialismo maoista e l’avvio delle riforme economiche con la decollettivizzazione della terra: fu insomma il trionfo del denghismo, punto di svolta fondamentale nella storia della Repubblica popolare. Da allora, ciascun mandato del Comitato centrale del PCC ha simbolicamente dedicato la sua III sessione plenaria, solitamente convocata a distanza di un anno dal Congresso nazionale, a fare il punto sullo stato delle riforme e proporne degli avanzamenti. Il plenum del 2013, con il cosiddetto “approfondimento complessivo delle riforme”, non fa eccezione. La tradizione sembra essere stata rotta proprio quest’anno, quando il II e il III plenum si sono tenuti ad appena un mese l’uno dall’altro, a gennaio e febbraio, per approvare la revisione della Costituzione; tuttavia, con l’avvicinarsi del 40° anniversario delle riforme, non è escluso che il consueto plenum autunnale prenderà importanti misure per concretizzare la “nuova era”.
[4] “A State Adequate to the Task”, Chuang, 2 (http://chuangcn.org/journal/two/an-adequate-state/).
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